mercoledì 23 febbraio 2011

Impressioni e storie di vita

San Lupo. Ne avevamo tanto parlato condividendo timori e speranze, obiettivi realistici e sogni. Ed ora, eccolo qui davanti a me, abbarbicato su una collina da cui quando non c’è nebbia, si gode un panorama stupendo. Manca il mare, certo. Ma l’aria frizzante della sera che si sostituisce a quella appiccicosa cui siamo più abituati, si fa certamente perdonare. Vi arrivo attraverso campi di ulivi ed una strada tortuosa che sale su da Benevento. Ed ecco il Centro. Piccoli comuni: Grande solidarietà. Mi colpisce perché è la costruzione più imponente della piazza del paese. Entro e la vedo subito: è lì col suo bambino in braccio che fa avanti e indietro per il corridoio. Parla un po’ animatamente. Il primo saluto agli amici colleghi ed ai nuovi e giovani collaboratori. Ci si ricorda di altre circostanze, di altri luoghi e di altri lavori. Eh si, sono proprio tante e diverse le cose che ho fatto da quando ero poco più che ragazzo ad oggi che sono, solo professionalmente, più maturo. Tutte legate da un unico filo conduttore: ascoltare le storie per capire, per condividere e, se possibile, per aiutare. Anche a San Lupo ascolto storie. Mentre vedo capannelli di gente all’ingresso del centro che chiedono di conoscere Hiyab nata a Benevento il 6 aprile scorso, ascolto storie. E vedo solidarietà. Grandi Solidarietà. Lei, però è ancora lì, ogni tanto riappare col pupo in braccio. E’ bellissimo Yousef, faccione rotondo e due occhi scuri da mangiarselo. Ha imparato a guardare “in cagnesco”, imitando lo sguardo scherzoso della cuoca. Se lo guardi in quel modo, ti risponde. E sorride. Sorride anche lei. Per fare i colloqui al centro di San Lupo ci sono diverse possibilità: la prima è offerta dallo stanzone dell’area psicosociale. Due finestre grandi danno sulla piazza e ti permettono di vedere cosa succede all’esterno dove ogni tanto alcuni ragazzi giocano a pallone. Un’altra è garantita da uno stanzino meno luminoso ma più raccolto. La preferisco, i colloqui diventano più empatici e profondi. E’ qui che ascolto la maggior parte degli ospiti. Storie di fughe, di carcere, di deprivazioni. Col biberon pieno di latte, Yousef in braccio ed il solito vestito, Fatima è ancora lì. Ha qualcos’altro da chiedere, animatamente. Al solito. Gioco col bambino, chiedo se posso baciarlo. Dice di si. Grande abbraccio al piccolo, allora. Le sorrido. Mi invitano a pranzo alla mensa, pasta col pomodoro e hamburger con insalata. Ci vado quasi ogni giorno. C’è un gruppo di ospiti che ama stare a tavola. Mangiano lentamente e scambiano battute. Sorridono. Una delle cuoche passa e chiede se il cibo è stato di gradimento. Non mi piace, risponde una signora in un italiano stentato. Ma come, se ha appena finito di pulirsi il piatto col pane non gli piace? E’ questa una di quelle scene che, avendo lavorato per molto tempo nelle strutture di accoglienza, ho visto con una certa frequenza. Lei ha già finito. E’ su da un pezzo. Quando viene il suo momento Fatima racconta e non si fa pregare. Scende nei dettagli descrive le scelte che ha fatto e ne rivela la motivazione. Parla del suo disagio. “I think, i think ….” Pensa Fatima, a sua madre e suo fratello rimasti in Somalia. Al marito che non sa dove si trovi. A suo figlio che manderà all’asilo con gli altri. E per lei? Gli basta un lavoro, un qualsiasi lavoro. Grazie ai colleghi e buon lavoro a tutti quelli che ho, momentaneamente, lasciato lì.

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